Carnevale Salento

CARNEVALE: maschere e rituali del Salento

È tempo di Carnevale. Un tempo in cui tutto diventa sospeso, in cui “mutare le vesti” ed indossare delle maschere diviene lecito e consentito, auspicabile se si vuole aderire al suo spirito! L’elemento della festa, dello scherno in allegria, del bere e del mangiare in compagnia ha da sempre caratterizzato questo periodo dell’anno che tanto racchiude nel suo significato, tanto può parlarci di noi, di ciò che siamo e di ciò che siamo stati.

LO SPIRITO DEL CARNEVALE: NIENTE DI NUOVO

Come ogni elemento del passato che ci viene tramandato, spesso ci giunge sbiadito o mutato nel significato. Scarnito e ridotto forse alla sua essenza più superficiale. 

Oggi per noi il Carnevale, nei suoi momenti di gioia e giocosa festività, viene però racchiuso principalmente nella sfera dei bambini, tra coriandoli e mascherine colorate. Maschere, travestimenti, scherzi e sollazzi invece risiedono in qualcosa che ci riconduce ad un tempo lontano in cui l’ordine precostituito poteva essere sovvertito. Proprio in questi giorni dell’anno le differenze sociali cessavano di esistere e la libertà di espressione – sempre presente e pulsante nell’animo umano – finalmente poteva esprimersi in tutta la sua complessità.

Dalle feste Dionisiache in Grecia – in onore di Dioniso, Dio del vino e dell’ebbrezza – alle Baccanali romane – dove il Dio del vino prendeva il nome di Bacco – il Carnevale trova antiche radici su cui affermare i suoi rituali ed evolversi: il vino l’elemento ad esso intrinsecamente collegato.

Il vino come strumento di unione tra le classi sociali che, inebriate negli animi, si concedevano ricchi banchetti offerti dai potenti. Ancora una volta la tavola diveniva un elemento di unione, e il vino un simbolo di convivialità

Finiti i giorni di festa, tutto ritornava nell’ordine precedente: il potente continuava a comandare ed il sottomesso ad ubbidire.
Come consuetudine per molti altri riti pagani, anche queste usanze, con l’arrivo della religione Cattolica, verranno riconvertite negli usi e nei significati. Si manterrà però un legame con la loro originaria esistenza attraverso l’usanza consolidata del sovvertimento delle gerarchie sociali, in virtù dello scherno e della trasgressione.

Il Carnevale, nella tradizione Cattolica, ha inizio il 17 Gennaio – giorno della “Focara” di S. Antonio Abbate – per terminare sempre il giorno antecedente il Mercoledì delle Ceneri. Ancora una volta il fuoco purificatore e le Ceneri benedette che, cosparse sopra i capi liberano gli uomini dai peccati commessi nel periodo precedente, in cui tutto (o quasi) era concesso. 

La penitenza come strumento di redenzione e possibilità di ristabilire l’ordine sociale. Quindi il Carnevale diviene la grande festa che annuncia la Quaresima, dalla sua derivazione latina “Carnem levare” ovvero “eliminare la carne”. Il riferimento è ai grandi banchetti, con annesse abbuffate, del Martedì Grasso, prima dell’inizio delle restrizioni che conducevano alla Pasqua.

Il tutto e il niente, lo sfarzo e la penitenza, l’abbuffata e il digiuno, il divertimento e l’ordine rigoroso… due momenti che si susseguono e si contrappongono, quelli del Carnevale e della Quaresima, ad auspicare un equilibrio che condurrà poi al giorno della Resurrezione. Legame che si evince anche nell’assegnazione delle date del Carnevale, che variano a seconda dell’arrivo della Pasqua.

IL CARNEVALE E LE RADICI AGRICOLE: I RITI APOTROPAICI

Aggraziarsi il ben volere della Madre Terra da sempre per gli uomini era condizione essenziale di sopravvivenza. Il Carnevale è strettamente connesso alla tradizione contadina, intriso di riti apotropaici volti a proteggere il buon andamento delle pratiche agricole o a tenere lontani eventi funesti.

Di derivazione greca e romana, la civiltà contadina si fondava su un “tempo circolare”, in cui il susseguirsi delle varie fasi in cui si snodava la natura veniva vissuto come strumento di misura del momento presente.

Febbraio era il mese della “purificazione”, dal latino Februare ossia purificare.

Dopo la vendemmia e la raccolta delle olive diveniva necessario ringraziare la Madre Terra prima che intraprendesse il suo riposo. In tal modo, al suo risveglio sarebbe stata pronta ad accogliere la primavera.

Il legame uomo e natura era strettamente intriso di fiducia, riconoscenza e cura.

Ed è proprio in questo periodo che le festività carnevalesche riprendevano i riti sulla fertilità della terra dedicati anticamente agli Dei agresti. In un contesto di scherno ed esultanza, si esorcizzava il nuovo anno e con esso la paura del futuro con le sue incertezze.

Il Carnevale, dunque, nel mondo contadino celebrava:

  • la morte dell’inverno (periodo di stasi e sospensione)
  • la rigenerazione della primavera (probabilmente eredità delle Calendae romane di Marzo).

Esorcizzare le paure significava rappresentarle concretamente nella realtà, come a vederle riflesse dinanzi a noi in uno specchio. Per questo i riti del Carnevale ci presentano un mondo rovesciato che annulla e sovverte le gerarchie e mette in scena ciò a cui l’animo generalmente soccombe.

LE MASCHERE NELLA TRADIZIONE SALENTINA

I festeggiamenti che si snodavano in questo divertito periodo e che terminavano con opulenti banchetti del Martedì Grasso, avevano come elemento di unione l’utilizzo delle Maschere

Volti coperti da tratti caratteristici, che permettevano ai proprietari di non rivelare la loro vera natura o li autorizzavano ad impersonare chi si sarebbe voluto essere.  

Legate alla tradizione teatrale comica e tragica dell’antichità, le maschere rappresentavano popoli e tradizioni. Nel Salento, la nostra terra, si ricollegano anche al florido periodo del Barocco. Le ritroviamo raffigurate sui portali delle abitazioni, scolpite in pietra leccese, con la funzione di scacciare gli spiriti maligni e le malelingue. Deformate, stravaganti e bizzarre creano elementi di unione tra il Carnevale e l’Arte Barocca in cui lo stupore, il grottesco e il deforme solcano l’essenza della sua irregolarità.

Proprio questa predisposizione a catturare gli elementi più caratteristici di usanze e peculiarità di un popolo ha favorito, su tutto il territorio nazionale, il nascere di figure carnevalesche di riferimento. Le maschere prendevano a caricatura predisposizioni di una comunità o di un ceto sociale in particolare, sino ad arrivare alla visione di Goldoni in cui le maschere rappresentano i personaggi della Commedia dell’Arte.

Lu Paulinu: la maschera carnevalesca copertinese
Lu Paulinu (foto: Ass. Proloco Copertino “F. Verdesca”)

La maschera “ti lu Paulinu” racchiude nel suo ricordo un sentimento popolare che si tramanda negli anni. Le origini del personaggio a cui si fa riferimento sono incerte, dovrebbero risalire alla fine del 1700 e l’inizio del 1800.

Si racconta che “lu Paulinu” era un povero contadino giunto in paese da uno dei Casali che sorgevano nei pressi di Copertino. Maldestro, cagionevole di salute a causa della fame e del molto bere, aveva catturato la simpatia del paese grazie al suo spirito gioviale, scherzoso e divertente.

Metteva allegria e quella, si sa, non è mai troppa! Giacca sgualcita, panciotto, corti calzoni e lunghe calze gialle fermate sotto le ginocchia da lacci rossi. Scarpe troppo grandi per i suoi piedi, capelli arruffati ed un feltro sformato calato sino alle orecchie. Un grosso faccione con gli zigomi sporgenti, sempre arrossati dal buon vino, come il suo grosso naso… e tanta, ma tanta simpatia.

Il suo carattere si ben prestava allo scherno e alla burla da parte dei paesani, la sua arguzia però gli permetteva di rivolgere lo scherzo a chi glielo aveva fatto, e il divertimento dei presenti era assicurato!

Accettava sempre di buon grado qualche bicchiere di vino offerto nelle botteghe del paese, cercando di mettere a tacere i morsi della fame. Fu proprio la fame però ad essergli fatale: uno stomaco sempre così vuoto non era pronto ad accettare così tanto cibo. Di norma i nobili del paese, divertiti dalla sua presenza, erano consueti invitarlo a pranzo per condividere con lui aneddoti e risate.

In realtà, il povero contadino, proprio nel periodo del Carnevale – trovò la morte dopo una grande abbuffata: la sua fame doveva esser veramente tanta, talmente tanta che ne rimase schiacciato.
Da quel giorno la sua figura, che si raccontò negli anni a venire, venne commemorata sempre nei giorni del Carnevale con sfilate in suo onore che ne rievocavano le gesta.

 Il funerale del Carnevale

Assunto a simbolo del “Carnevale morto”, lu Paulinu divenne protagonista di una rappresentazione allegorica in cui si piange il defunto mentre avanza il suo corteo funebre.Il passaggio delle sue spoglie sancisce la fine del tempo dei festeggiamenti e l’arrivo della Quaresima, periodo di penitenza e purificazione. L’elemento del fuoco purificatore che prepara gli animi alle rigidità future, viene messo in atto nella “Focara” appositamente costruita per “lu Paulinu”: una pira di sarmente in cui il pupazzo di stracci e paglia, a ricordo del giovane contadino, viene bruciato. Il Carnevale è definitivamente deceduto. Donne vestite a lutto si esibiscono in grida e lamenti, lasciandosi dietro quel fuoco rigeneratore del Mercoledì delle Ceneri.

Le Prefiche salentine

Ma chi erano le donne che piangevano disperate “lu Paulinu”?
Le “Prefiche” o “Chiantimorti” erano delle donne luttuose e urlanti (dal latino Praefica= piangere davanti) che avevano il compito, dietro compenso, di piangere il defunto decantandone le virtù.

Le prefiche. (Foto: Cameraperta.wordpress.com – Storia di una professione ormai estinta: il lamento funebre)

Nel Salento queste figure, sin dall’inizio del 1800, facevano parte della liturgia funeraria: vestite di nero e con il capo coperto si straziavano dinanzi al defunto con urla e cantilene. Le Prefiche in realtà non piangevano realmente… ma facevano piangere le altre donne!

I loro “canti” costituivano un rituale tramandato oralmente, ripetuto in ogni circostanza e arricchito di volta in volta da aneddoti o virtù che possedeva il povero defunto. Si voleva dar onore a colui/colei che se n’era andato/a, attestandone l’affetto e l’attaccamento proprio attraverso lo strumento del pianto.  

Nella logica della cultura contemporanea, questa potrebbe sembrare una consuetudine bizzarra, frutto dell’ignoranza e dell’arretratezza di quelle genti. Nella realtà anche queste usanze si ricollegano a tradizioni antiche, romane nello specifico, in cui figure di donne tessevano le lodi dell’estinto intrecciando pianti, grida e gesti di disperazione.
Con l’alfabetizzazione del mondo contadino e il conseguente abbandono delle campagne questa pratica è pian piano caduta in disuso e di queste figure luttuose e delle loro cantilene poco è giunto a noi.

 LA CHIUSURA DEL PERIODO CARNEVALESCO: LA PENTOLACCIA

Ci avviamo alla fine del Carnevale, ma prima non possiamo non ricordare la tradizione della Pentolaccia, ovvero un’usanza che sancisce la chiusura di un periodo di sfarzi e allegria e che richiama al raccoglimento e alla rinuncia.

Oggi noi identifichiamo con il termine Pentolaccia quel fagottino pieno di caramelle e dolci che fa divertire tanto i bambini, bersaglio da rompere con gli occhi bendati.

Le sue origini sono ben più lontane: nel Medioevo si festeggiava il mercoledì di mezza Quaresima, traendo ispirazione da usanze praticate nel Capodanno Cinese. Un viaggio e un percorso che ci porta con Marco Polo, in Cina, alla pratica di riempire un recipiente di semi vari per auspicare un florido raccolto.

Le gestualità di quelle genti e gli intenti di buon augurio saranno riportati dall’esploratore in Italia e anche oltre: in Spagna, per esempio, la prima domenica di Quaresima divenne la Domingo de piñata.

Da noi in Salento, invece, la Pentolaccia si festeggiava a cavallo tra il Carnevale e la Quaresima. Veniva riempita di caramelle e confetti – spesso anche qualche agrume o ciò che ispirava chi la componeva – e veniva appesa al soffitto per essere rotta insieme ad altre, che invece contenevano carbone e cenere. Ancora una volta il simbolismo di astenersi dai peccati della gola (i dolciumi) in vista delperiodo quaresimale (la cenere) ricollega con un filo diretto tutto il percorso che rimanda alla ciclicità della natura e al buon auspicio, richiesto all’anno nuovo da poco iniziato. Ci si doveva traghettare sino al risveglio con l’equinozio di primavera.

In questo odierno tempo sospeso, in cui la Pandemia ha congelato usanze e convivialità – e altre inquietudini continuano a sorprenderci – ci auguriamo che come la Quaresima indica un tempo di astinenza e purificazione, per tutti noi possa ritornare un periodo di Resurrezione pasquale in cui poter ritornare a festeggiare, a gioire insieme!

In questo articolo ti abbiamo raccontato un poco delle nostre usanze e delle nostre tradizioni, di come il mondo agricolo si è sempre intrecciato con i cicli della natura e di quanto nelle nostre abitudini moderne ritroviamo rituali di tempi ormai lontani.

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